“GOCCE DI PAROLE” DI GERO MARINO – RECENSIONE

Scheda tecnica
Titolo: Gocce di parole
Autore: Gero Marino
Genere: Racconti
Editore: Self-Writer
Pagine: 430
Anno pubblicazione: 2016

Cari lettori, oggi vi volevo parlare di Gocce di parole, una raccolta di racconti che mi è stata gentilmente inviata dall’autore Gero Marino. Si tratta di numerosi racconti di vario genere, che vanno dal thriller allo psicologico, dal distopico all’horror.

Devo dire che non sono una grandissima fan dei racconti, forse perché a volte mi lasciano quel senso di non finito, ma questo è un gusto personale e, a mio avviso, questa raccolta potrebbe incontrare il favore di chi invece ne è amante. Si tratta di un grande serbatoio di storie in cui Gero Marino da prova di uno stile fresco e accattivante. E alcune non sarebbero niente male se diventassero dei veri e propri romanzi! L’autore scava nella psiche dei personaggi, seppure tramite dialoghi e in poche pagine, e le descrizioni sono precise, per nulla dispersive.

Paradossalmente ai miei soliti gusti, i racconti horror sono quelli che mi sono piaciuti di più, in particolare “Lo strano caso di Madeline Taylor” e “La demoniaca presenza in Via Cesare”. Mi hanno lasciata col fiato sospeso e avrei tanto voluto saperne di più! Soprattutto sul primo dei due racconti, in cui la figlia della protagonista, concepita in un luogo alquanto singolare, afferma di essere vissuta in una casa diversa dalla sua e che, in quel luogo, ci sia morta. Macabro, ma davvero interessante.

Si susseguono inoltre anche racconti distopici, ambientati in un futuro per nulla roseo. Ormai si sa, quando si pensa al futuro, sono pochi gli autori che ne immaginano uno “rose e fiori”. Io stessa sarei poco incline a farlo.

Alcuni fanno riflettere su tematiche attuali, come il matrimonio, visto come una prigione in cui si perde la libertà e la leggerezza del rapporto di coppia, tanto che il protagonista preferisce vivere infelice e single, ma padrone della sua vita. Se così si può chiamare, perché siamo esseri umani, siamo stati creati per vivere in coppia e raramente la solitudine è una soluzione appagante.

Quello che mi ha fatta sorridere è senz’altro il racconto con cui si apre la raccolta, in cui c’è proprio il trionfo della protagonista che, messa da parte per ben due volte in favore della carriera dall’uomo che amava, decide di sparire e il protagonista, finalmente pronto per stare con lei perché ormai soddisfatto sul piano lavorativo, rimane, come si suol dire, con un pugno di mosche in mano. Mi ha fatta sorridere per la rivincita della donna, una rivincita che quasi tutte nella vita abbiamo sognato di avere, ma anche riflettere su quanto spesso le priorità nella vita di una persona siano sbagliate o conciliate male. Perché la vita è una e, sebbene la maggioranza dei racconti di Gero Marino si concluda con una morte (annunciata, realmente avvenuta o supposta), io in realtà ho riflettuto sulla vita, su quanto sia breve e quanto ci sia bisogno di viverla nel miglior modo possibile, facendo ciò che ci fa stare bene, sempre nel rispetto altrui.

Vi lascio di seguito, in accordo con l’autore, uno dei racconti, ovvero “Lo strano caso di Madeline Taylor”, così che possiate toccare “con mano” una delle realtà che ho appena descritto. Buona lettura 😉

“George Town, isole Cayman.
Fu in una notte tempestosa di un venerdì 17, che Madeline
Taylor divenne ragazza madre nella sala parto dell’ospedale
Cayman Island Hospital. In realtà, si trattava dell’ultima
perturbazione della stagione, in quanto l’inverno era ormai
giunto al termine per lasciar spazio alla primavera e alle belle
serate festose, una di quelle allegre, dove Madeline tra un
bicchiere e l’altro permetteva che un perfetto individuo, nella
sala da ballo della disco più “in” dell’isola, la seducesse con due
parole e la portasse nel più vicino cimitero abbandonato, il Dixie
Cemetery, per potersi approfittare sessualmente di lei. Il
cimitero si affacciava sulla costa, la luna piena e il suono delle
onde del mare, suggellarono tra i due, un patto di sangue dai
risvolti inaspettati.
Deve aver odiare all’infinito quella maledetta notte,
Madeline, mentre urlava e si dimenava per dare alla luce la
piccola Viola, un nome preso a caso dritta dritta da una lapide su
cui lei e il giovane impenitente avevano consumato il loro rito dai gusti a dir poco contestabili. Quella gravidanza, per la
ventitreenne, segnò la fine delle sue “notti brave” da fotografa
turista, in cerca del suo “io” in giro per il mondo. Così non gli
restò che stabilirsi alle Cayman e svolgere il lavoro di cameriera
presso un fast food accantonando la possibilità di laurearsi per
riuscire ad allevare la piccola Viola, una bambina piuttosto
taciturna, a detta della babysitter, con cui trascorre le serate tra
le merendine e i colori che teneva in mano per disegnare le sue
buffe opere d’arte.
All’età di nove anni, però, qualcosa cambiò. Negli incubi
notturni di Viola, sempre più frequenti, si manifestarono dei
déjà-vu particolari e tuttavia sempre più ben definiti e descritti
dalla bambina come ricordi vividi di una vita passata, dettagli
che ogni giorno di più affioravano nella sua mente con dovizia
di particolari che, di tanto in tanto, giungevano all’orecchio di
Madeline, che presa dal lavoro e dalle faccende di tutti i giorni
relegava una superficiale considerazione, data la possibile
immaginazione più o meno fervida che una bambina poteva
celare dentro di sé. Sulla questione però, non restò indifferente
Amanda, anche se pagata pochi spiccioli l’ora, rappresentava
per Viola, l’amica più prossima, nonché confidente referenziata.
Quando Amanda, un giorno, spulciò gli ultimi disegni, notò
l’assidua presenza di una casa raffigurata in stile vittoriano di
colore chiaro, avente una porta d’ingresso di un rosso acceso
con in mezzo una maniglia dorata.
«Dove hai visto questa casa?» Domandò Amanda alla
fanciulla.
«La vedo nei miei sogni… » Spiegò la piccola Viola «…è lì
che abitavo prima!» Sostenne.«Davvero? Ma io ti ho vista crescere qui, questa casa dove si
trova? È forse la casa dei tuoi nonni, tesoro?»
«No, no. Questa è la mia prima casa, la mia vera casa e io ci
voglio andare presto e ci andrò!» Esclamò, tutta orgogliosa.
La babysitter, con scrupolo, raccontò i dettagli a Madeline
che a parer suo le confessò di non aver mai visto una casa simile
in tutta la sua vita. Così, entrambe interrogarono la bambina per
scoprire cosa la tormentasse nelle notti insonni e capire se tutto
ciò fosse scaturito da un brutto film visto in tv o da qualche altra
spiegazione plausibile, ma più si inoltravano nella mente di
Viola più questa si sentiva oppressa e desiderosa di andare in
quella casa perché, a suo dire, era lì che abitava prima.
Dopo alcuni giorni, finalmente, Amanda scorse in un
disegno, la mappa di un territorio emerso dal mare con dei chiari
riferimenti. Così, armata di curiosità, accese il suo portatile e si
mise a compiere ricerche su internet per scoprire se nei dintorni
esisteva davvero un’isola che combaciava con le descrizioni del
disegno. Dopo una buona mezz’ora, capì che la località in
questione esisteva davvero! Si trattava di Freeport, una regione
situata presso un’isola a nord est di Miami. Grazie alle mappe
satellitari e alle cartoline turistiche, Amanda riuscì a distinguere
perfettamente la casa descritta così morbosamente dalla
bambina. Era una struttura situata a Fortune Beach, una delle
zone più desolate e poco frequentate. Viola smaniava per poter
visitare quella località, non appena udì Amanda raccontare della
scoperta a sua madre, ma il vincolo del lavoro non consentiva a
Madeline di allontanarsi dalla città. Perciò, con i pochi soldi che
aveva messo da parte per i regali di Natale ottenuti con le
mance, la mamma di Viola decise di affidare ad Amanda il compito di soddisfare la curiosità di sua figlia e concedere a
entrambi una gita, anche se non programmata.
I due si precipitarono a fare i biglietti. Partenza prevista con il
volo dell’indomani.
Amanda portò con sé uno zaino abbastanza capiente per un
pick-nick improvvisato, costituito da svariati snack, una torcia a
manovella e un set di trucco da viaggio. Balzata in aereo, la
bambina si rivelò a dir poco contenta e festosa e la sua allegria
irrefrenabile finì per mettere di buon umore anche la sua
accompagnatrice.
«Finalmente torno a casa, la mia vera casa!» Urlò Viola, che
con il suo comportamento eccentrico lasciava la compagna di
viaggio sempre più stupefatta.
La giornata era perfetta e il comandante della Cayman
Airways annunciava al microfono previsioni meteo stabili
augurando ai suoi passeggeri un volo sereno.
Giunti all’aeroporto lo sportello della guida turistica locale le
indicò l’autobus che le avrebbe portato direttamente nei pressi
Fortune Beach.
Durante il tragitto Viola terminò il suo ultimo disegno
raffigurante la casa e l’immagine di lei con un grande sorriso. Il
mezzo lasciò le due villeggianti sul ciglio della statale, dove a
fianco si diramava una strada di campagna che conduceva alla
loro destinazione finale. Le due s’incamminarono lungo il
sentiero, ma a poco a poco il cielo si fece inaspettatamente
sempre più cupo, intimando un’incalzante acquazzone che
minacciava di rovinare la gita.
Finalmente arrivarono alla meta. Di fronte a loro, si stagliava
un edificio di colore chiaro invecchiato male, con evidenti segni
di abbandono e fatiscenza. La porta d’ingresso era tale e quale al disegno realizzato più e più volte da Viola. Perfino quello
appena creato in viaggio, tenuto in mano dalle due, sembrava la
foto spiccicata di quella casa.
«Viola, ora che finalmente siamo qui, vuoi dirmi dove hai
visto questa casa? A prima vista sembra abbandonata. Guarda
quante erbacce ci sono in giro. Non è che ti è capitata in mano
una foto, una cartolina o una pubblicità di qualche asta di
vendita alla tv?» Le chiese la giovane Amanda.
«Questa è casa mia, ti dico. Vieni, entriamo.» Insistette
determinata la fanciulla che in quel momento espresse un volto
curioso e fremente, sgranando gli occhietti azzurri.
Amanda bussò inutilmente la maniglia in finto oro laccato,
ma non ricevette alcuna risposta. Tutt’intorno, aleggiava un
silenzio macabro. Al piano terra si intravedeva una finestra rotta,
ma nessun segno di vita, né tanto meno un cartello di avviso.
Niente che induceva a ipotizzare una qualche destinazione d’uso
di quell’immobile, se apparteneva a una specifica utenza, per
esempio due coniugi anziani, o se fosse adibita come centro
culturale, un ospizio o addirittura una casa per appuntamenti,
niente. Dinanzi all’insistenza di Viola, Amanda girò la maniglia
che, priva di mandate, aprì la porta, anche se spalancata solo per
una decina di centimetri, quel tanto che bastò per poter dare una
piccola spallata e riuscire ad accedere all’interno. L’ambiente
era buio e fuori cominciò stranamente a piovere, ma Viola era
contenta perché finalmente si trovava a casa! L’elettricità
mancava, quindi Amanda posò il suo zaino a terra e si munì di
torcia, ma non fece in tempo a dare un giro di carica che Viola le
sgusciò via come un’anguilla dritta nel ventre oscuro della
misteriosa dimora. Un passo davvero azzardato. Cosa spingeva
una bambina di nove anni a fiondarsi all’interno di una proprietà sinistra e a lei sconosciuta? La sentì urlare felice in corsa lungo i
corridoi e le stanze che di certo Viola non avrebbe dovuto
affatto conoscere. La ragazza scattò immediatamente alla
rincorsa della bambina, vagando in lungo e in largo sopra i
pavimenti di legno scricchiolanti. Ben presto si ritrovò
nuovamente nell’atrio vicino alla porta d’ingresso, immersa
nella totale oscurità, nella quale scoprì che lo zaino era sparito
nel nulla. La babysitter iniziò a provare paura. Disperata, iniziò
a urlare alla bambina nel tentativo di capire dove si era cacciata.
Armata della sola torcia che esigeva di essere ricaricata di
continuo, la ragazza decise di andare a esplorare lo scantinato.
Tra un lampo e l’altro, iniziarono ad affiorare sporadici
disegni realizzati lungo le pareti dei corridoi con l’uso del suo
rossetto trafugato dalla bambina. La voce di Viola si udiva
sempre più forte man mano che Amanda scendeva le scale che
conducevano al piano sotterraneo allorquando, finalmente,
intravide l’esile sagoma nella penombra. Le illuminò il viso con
la torcia che insisteva a lampeggiare affannosamente. Un volto
chiaro, divertito, ma allo stesso tempo vuoto, perso chissà dove,
come quando le persone cadono in uno stato d’ipnosi.
«Viola? Viola, che fai lì al buio, tutta sola? Vieni,
andiamocene da qui! Questa casa mi dà i brividi! Viola? Non
vuoi tornare dalla mamma?»
«La mamma non deve preoccuparsi. Io ora sono a casa, a
casa mia. Visto che non dicevo bugie?» Rispose la bambina.
«No, tesoro, questa non è casa tua, lo sai. Perché insisti
ancora con questa storia?» Domandò, la ragazza. «Perché è qui che sono morta la prima volta…» si sentì
rispondere da una voce echeggiante «…e adesso, tu verrai con
me!»
Sulle guance di Viola comparvero improvvisamente due
cicatrici. Dalle labbra, sgocciolavano colate di sangue di un
rosso intenso. La bambina trascinò Amanda nell’oblio con un
abbraccio mortale e di loro non rimase più alcuna traccia.
Madeline non riuscì mai a scoprire il tragico destino di
Amanda. Dopo le indagini della polizia non gli restò altro da
fare che seppellire una piccola bara vuota in nome di sua figlia,
a Dixie Cemetery, proprio là, dov’era sepolta un’altra Viola.”

Tratto da “Gocce di parole” di Gero Marino

Voto: 3/5

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